(A cura di Alessandra Bonanno- psicologa e psicoterapeuta e di Lorenza Bonanno – Counsellor)
Non è facile affrontare un argomento di questo tipo. Essere consapevoli che al giorno d’oggi, dilaga tra i giovani, un atteggiamento di autolesionismo è davvero preoccupante. Abbiamo voluto presentare un articolo scritto a quattro mani, da una psicologa e psicoterapeuta e da una counsellor, per evidenziare come questo argomento non è solo un tema trattato tra tanti, ma una testimonianza ed un richiamo forte da parte nostra. Vi riporto di seguito una testimonianza che ho letto in rete:
“Sono una ragazza che non vorrebbe far sapere il suo nome. Da qualche mese sono molto depressa. Voglio andare via, scappare. Sto malissimo. E ho cominciato a farmi male e tagliarmi. Per favore non mi rispondere di smettere subito e che in realtà tutti mi vogliono bene. Sto cercando qualcuno che non mi dica quello che tutti mi direbbero.” Sono poche righe tratte da un forum scritte da una giovanissima che tenta di dare voce al suo malessere interiore. Questo atteggiamento viene oggi segnalato come cutting, ovvero il tagliarsi volutamente con lamette o oggetti affilati senza avere l’intenzione di uccidersi. E’ riconosciuta come una forma di autolesionismo voluto e ripetitivo sulla propria persona. Questo atteggiamento è adottato spesso dagli adolescenti come per controllare un dolore troppo forte, un sentimento così prepotente che non si è capaci di contenerlo, tanto da trasportare il dolore mentale nel dolore fisico infliggendosi delle ferite. E’ una rabbia contro se stessi e l’incapacità di gestire una certa situazione. Purtroppo non è solo il tagliarsi che rivela essere un gesto liberatorio, ma anche il bruciarsi con le sigarette (burning) oppure ledere la pelle con qualcosa di rovente come il ferro da stiro (branding). Tutti questi segni e cicatrici sono evidenti segni di autodistruzione che racchiudono un chiaro messaggio di sofferenza e incapacità di gestire una “emozione” interna e di raccontarla. Uno studio effettuato tra i giovani, rivela che questo atteggiamento è frequente per circa 10% dei teenager tra i 13 e i 16 anni, dunque oltre duecentomila adolescenti di cui sono il 90% ragazze e di questi solo il 15 % chiede aiuto. A completamento dell’indagine si evince anche che la lametta è lo strumento più scelto dagli adolescenti nel 57% dei casi, seguita dalle forbici (21%), il taglierino (11%), la lama del temperino (7%) e il coltello (4%). La parte più ferita del corpo sono le braccia (53%). Ai polsi punta il 21%, ma si fanno male anche alle gambe (il 17%) e alla pancia (il 9%). Nel 65% dei casi le ferite sono inflitte su una singola parte del corpo. A rendere ancora più problematica la situazione è il fatto che di solito il tutto avviene in segreto. Si vergognano da morire ma continuano a farlo. “Le ferite inflitte al corpo sono per loro un mezzo estremo con cui lottare contra la sofferenza psicologica, – dichiara Alessandra Bonanno psicologa – è riduttivo pensare che sia solo una mera richiesta di attenzione. C’è un malessere profondo che fatica ad emergere e ad essere rielaborato. Sono ragazzi che non si sentono mai all’altezza, che provano disagio, vergogna, senso di colpa, si sentono dei falliti ed hanno una bassissima autostima. Il loro è un dolore che passa dall’anima al corpo per farlo diventare meno forte. Desiderano annullare la sofferenza della mente diventata insopportabile, martoriando il corpo. È come se adottassero una strategia difensiva per tamponare un dolore insostenibile. Il sollievo momentaneo dal dolore emotivo o dal senso di vuoto che il ferirsi provoca fa si che il ragazzo tenda a ferirsi nuovamente, in un meccanismo simile a quello della dipendenza da sostanze. “
Smettere di ferirsi allora richiede non solo un atto di volontà ma anche un aiuto professionale ben strutturato e non giudicante che permetta ai ragazzi in sofferenza di tradurre in parole l’indicibile dolore che li attraversa e imparare a tollerare la rabbia, la frustrazione e la solitudine senza agire contro se stessi.
In questi ultimi anni, nella mia pratica clinica, ho incontrato molti di loro, tantissimi sono riusciti a interrompere questo circuito compulsivo della sofferenza, altri sono in cammino. Loro chiedono aiuto e lanciano segnali che dobbiamo imparare a cogliere. Bisogna osservare i propri figli. Ragazzi che indossano abiti sempre più larghi e lunghi, che hanno lividi e ferite inspiegabili, piccole tracce di sangue sui vestiti, devono destare sospetto. Adolescenti sempre più irritabili, privi di amici, di reti sociali, ragazzi che si isolano e lasciano qua e là disegni e messaggi di morte, non possono lasciare tranquilli un padre e una madre. Il punto di partenza non è giudicare ma offrire sostegno. È importante imparare ad ascoltarli, fermare il tempo per loro, accogliere il loro dolore senza colpevolizzare, punire o minacciare. Il bisogno di essere ascoltati è ciò che accomuna questi ragazzi. Da li si comincia. L’amore dei genitori poi è il balsamo per le ferite dell’anima.”
Cultura e società
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