La favola di una Sicilia da età dell’oro, in cui gli agrumeti con i loro irresistibili colori, profumi e sapori, appagano i sensi e garantiscono il benessere economico e sociale, sembra essere terminata da un pezzo, se mai è cominciata. Stagione agrumicola dopo stagione agrumicola, il sudore nella fronte dei coltivatori scorre sempre uguale, ma i profitti calano e i problemi, quelli di sempre, restano.
Oggi il principale nemico degli agrumicoltori del sud Italia, in particolare quelli siciliani e catanesi, è rappresentato da una politica estera che permette l’arrivo di un’enorme quantità di agrumi provenienti dai Paesi dall’altra sponda del Mediterraneo. Non solo i produttori maghrebini, ma oggi anche quelli turchi si sono trasformati in competitors degli agrumicoltori italiani, nel mercato europeo. Come denunciato nei giorni scorsi da Agrinsieme Catania, infatti, “dall’1 gennaio 2016 il mercato russo è stato chiuso alla Turchia – secondo fornitore della Federazione russa per gli agrumi – e questo fatto rischia di compromettere la già complicata situazione del mercato ortofrutticolo italiano ed europeo”. Basti pensare che, nel 2013, Istanbul ha fornito a Mosca una quantità di agrumi del valore di 347 milioni dollari, incrementando negli anni le importazioni.
L’arrivo delle arance turche nel mercato europeo si aggiunge così al commercio di agrumi provenienti da altri Paesi del Mediterraneo, prodotti spesso privi dei requisiti di etichettatura e tracciabilità. Questo accade a dispetto della riconosciuta qualità degli agrumi siciliani, in particolare l’arancia rossa di Sicilia, che dal 1996 è stata insignita del marchio IGP dall’Unione Europea. Ciò non basta, evidentemente, a proteggere il prodotto dall’invasione degli agrumi d’oltremare. Occorrerebbero infatti, sia a livello locale che nazionale e sovranazionale, politiche più incisive per garantire la sopravvivenza delle produzioni made in Italy.
Alle minacce provenienti dall’esterno si aggiungono poi le problematiche tutte nostrane, che investono tutta l’agricoltura siciliana. Nelle ultime settimane, come raccontato dall’edizione palermitana di Repubblica, è giunta una brutta notizia per le aziende siciliane che si occupano di agricoltura biologica: a fronte del ricorso delle aziende escluse, il Tar ha annullato un bando da 320 milioni di euro, fondi europei, per le coltivazioni ecosostenibili. Il motivo della decisione del tribunale amministrativo sta nel fatto che mentre l’Unione Europea, nella sua circolare, distingue chiaramente tra diversi tipi di agricoltura biologica, la Regione, nel suo bando, non avrebbe evidenziato chiaramente tali differenze, distribuendo i fondi a pioggia. Il risultato è che i vincitori del bando potrebbero essere costretti a dover restituire le somme ricevute e già investite, mentre la Regione si troverebbe a dover coprire un grosso buco. L’ennesima batosta in un quadro di per sé già complicato, quello dei fondi europei per l’agricoltura, con la Regione che, in sette anni, quelli previsti dal Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013, non è riuscita a spendere tutti i due miliardi e 185 milioni di euro messi in palio da Bruxelles, entro la scadenza fissata del 31 dicembre scorso. Risultato? 21,5 milioni di euro andranno restituiti all’Unione, un’assurdità dovuta all’incapacità di utilizzare proficuamente tali contributi.
Infine, c’è la questione legata ai Consorzi di Bonifica, ormai al collasso per via della carenza di fondi, dovuta anche ai progressivi tagli ai trasferimenti da parte della Regione. Tutto ciò impedisce non solo il pagamento dei dipendenti ma anche lo svolgimento degli interventi necessari alla prossima campagna irrigua. A fronte di un servizio al rallentatore, gli agricoltori si vedono recapitare bollette salate e difficilmente sostenibili, alle quali si uniscono poi le tasse da pagare sui terreni. Insomma, una situazione che è tutto fuorché rosea e dalla quale, al momento, sembra difficile trovare una via d’uscita.
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