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L'economia italiana e la trappola della crisi. Il dramma sociale delle nuove generazioni

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L’economia italiana non è ancora uscita dal lungo periodo di crisi che l’ha colpita. Mentre altri paesi del Nord Europa corrono, l’Italia arranca. I dati dell’Istat sul secondo trimestre del 2016 mostrano una lieve crescita rispetto all’anno scorso (nello stesso periodo) ma una sostanziale immobilità rispetto al trimestre precedente. La lunga congiuntura di crisi internazionale ha colpito molti stati del mondo occidentale, ma è un dato di fatto che i paesi del Sud Europa, Italia compresa, hanno sofferto e soffrono più degli altri.
Il caso Italia è complesso, va analizzato a macchia di leopardo: perché vi sono realtà che continuano a crescere, altre che decrescono. Imprese che hanno superato la crisi puntando sull’export, tante altre che arrancano, non supportate da una politica economica di rilancio dei consumi. Che non ripartono di certo con piccoli sgravi fiscali che riguardano solo una fascia di popolazione ma con progetti di politica industriale ampi ed innovativi, e con interventi statali mirati allo sviluppo delle infrastrutture. Per avere una economia forte occorre rafforzare il livello di produttività.
Non vi è alcun dubbio che hanno inciso negativamente le politiche del “rigore cieco”, dell’austerity europea, frutto di una visione conservatrice intrisa di neoliberismo dogmatico che tagliando in maniera rude sullo stato sociale ha prodotto l’indebolimento del ceto medio. I tagli sugli investimenti statali, sui servizi pubblici, l’aumento della tassazione (soprattutto nell’era Monti, in linea con la Merkel e gli allora vertici della Ue) hanno inciso sulla carne viva dell’Italia. Va detto che Monti fu chiamato a salvare un Paese in grande difficoltà, in recessione economica e con lo spread che aveva superato 560 punti, una Italia che era vicino al baratro dove l’aveva condotta il governo Berlusconi (dato che la memoria di molti italiani è corta, è giusto ricordarlo). Monti però fece errori clamorosi, intervenne con tagli lineari che invece di tagliare solo sprechi (che non mancavano e mancano) colpì in maniera indiscriminata lo stato sociale, in primis i più deboli, in secundis il ceto medio. La riforma delle pensioni della Fornero, con le sue contraddizioni ed errori (si pensi agli esodati) noti a tutti, fu realizzata in fretta e furia senza tenere conto dello stato del Paese. Con Monti proseguì l’iter del lento smantellamento dei diritti del lavoro (e non solo), che è partito da lontano e che è arrivato alla riforma del Jobs act dell’attuale governo. La riforma contiene anche alcune cose giuste sul piano della flessibilità, purtroppo non adeguatamente attuate. Ma risente in generale della stessa visione politico-economico neoliberista, che crede e vuol far credere che tagliando i diritti dei lavoratori l’economia cresce perché libera da vincoli. Mentre invece è il contrario: il Paese di tutto l’Occidente dove si è impoverito negli ultimi 9 anni solo il 2% della popolazione, il più equo e giusto socialmente, quello con più benessere diffuso è la Svezia. E’ lo stato dove i diritti dei lavoratori sono maggiormente tutelati (addirittura il 68% dei lavoratori sono sindacalizzati e ben difesi), dove vi sono i maggiori investimenti da parte dello stato per sanità, scuola e servizi sociali. Va anche aggiunto però che in Svezia vi è la minore evasione fiscale, quasi nulla. Dunque un sistema che funziona da tutti i punti di vista.
Comunque, un imprenditore investe se ha incentivi validi che riguardano strutturalmente la crescita produttiva (e la conquista di nuove fette di mercato), sgravi fiscali efficaci e di lungo periodo, se viene liberato da vincoli e lacciuoli burocratici. Infatti molti imprenditori brillanti che sono il nocciolo duro della seconda potenza industriale manifatturiera europea (qual è tutt’ora l’Italia) hanno continuato a crescere anche durante la crisi internazionale. E non solo al Centro-Nord, anche in Sicilia ed al Sud vi sono diverse eccellenze (locali e internazionali) che con idee innovative e coraggiosi investimenti hanno conquistato i mercati (ed hanno assunto lavoratori in buona parte prima del Jobs Act). Nel Sud purtroppo manca la massa critica, ovvero le imprese di eccellenze sono poche rispetto a quelle del Nord d’Italia.
Ora ben venga la flessibilità intelligente nel mondo del lavoro, d’accordo che bisogna rinnovare i contratti, ma per far questo servono nuovi investimenti sullo stato sociale, per aiutare tutti coloro che perdono il lavoro in un mercato debole e fragile come quello italiano. In Italia si è fatto credere che rendere più facili i licenziamenti avrebbe reso magicamente più dinamico il mondo del lavoro. I dati concreti non vanno in questa direzione, il trend negativo della disoccupazione giovanile non è stato scalfito da queste politiche economiche. Il dato complessivo della disoccupazione in Italia mostra un paese che non è affatto uscito dalla crisi. I segnali positivi che giungono dalle eccellenze dei diversi luoghi d’Italia sono il frutto del lavoro e delle idee originali di privati cittadini. Certamente vi sono realtà locali dove la sinergia fra buone amministrazioni locali (capaci di creare le infrastrutture materiali ed immateriali importanti per ogni tipo di sviluppo) ed imprenditori produce buoni risultati, ma complessivamente mancano ancora reti sociali forti. E politiche pubbliche di investimenti ingenti e mirati. In questa ottica va però considerato il freno rappresentato dalla Ue. Renzi fa bene ad impegnarsi per contrastare la linea rigorista dell’Ue ed ha anche ottenuto qualche risultato sulla maggior elasticità nei conti pubblici ma la strada è ancora lunga e complessa.
La situazione è difficile ma non impossibile. Le potenzialità dell’Italia sono innumerevoli ed anche i dati economici di molte eccellenze nazionali lo testimoniano. Ma non si intravvedono ancora le soluzioni, il governo attuale non riesce ad incidere sul piano della crescita e dello sviluppo.
E vi è sullo sfondo un problema fondamentale: la crescita delle diseguaglianze in molti paesi occidentali. L’Italia è uno degli stati con più differenze fra i ceti sociali, mentre prima era l’eldorado del ceto medio. Ed è questo il nuovo problema, non soffrono solo i poveri “assoluti” ma anche sempre più fasce sociali di piccola e media borghesia colpite dalla crisi economica.
Certo vi è anche una fetta del ceto medio che pur vedendo erosi parte dei suoi redditi, vive ancora bene. Ma non investe abbastanza in attività produttive e non spende adeguatamente nei consumi perché ha paura del futuro, non solo di perdere la propria posizione lavorativa ma di non aver abbastanza soldi in futuro per poter garantire dei buoni studi ai figli oppure affrontare il problema del curarsi per una grave malattia. E’ questo uno dei più grandi drammi dell’Occidente, i figli che hanno molto meno dei padri, che non avranno lo stesso benessere, gli stessi diritti, la stesse possibilità di realizzazione. Indovinate qual è la nazione dove è maggiore questo enorme problema sociale? Secondo uno studio autorevole, il rapporto McKinsey, l’Italia è il paese che economicamente dal 2005 al 2014 ha visto maggiormente crescere le diseguaglianze. Per il 97% degli italiani i redditi sono o simili a quelli di 9 anni fa o addirittura minori. E le prospettive dei giovani rispetto ai loro genitori sono le peggiori dell’Occidente. E’ questo il vero dramma dell’Italia che tocca la vita di tanti cittadini, non le riforme costituzionali. Peccato non se ne discuta abbastanza…